Uffici vicini e visioni lontanissime: dai rave alle banche fino all’Europa il duello senza fine Tajani-Salvini

diTommaso Labate

Sulla trattativa a Bruxelles l’ultimo capitolo della «guerra» tra i vice

L’ultima volta che si sono scontrati assomiglia talmente tanto alle tante precedenti che è chiaro a tutti che al prossimo round manca poco, se non pochissimo. L’uno ha bollato come un «colpo di Stato» l’accordo tra popolari e socialisti che ha portato all’indicazione di Ursula von der Leyen e Antonio Costa ai vertici delle istituzioni europee; e l’altro, che del Ppe è una delle figure più note, gli ha risposto per le rime sottolineando che quello «non è il mio linguaggio».

L’uno e l’altro sono Matteo Salvini e Antonio Tajani, i numeri due di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi uniti, oltre che dalla carica di vicepresidente del Consiglio, solamente da altre due cose: il tesserino da giornalista professionista che nessuno di loro conserva più nel portafogli e la granitica certezza che a entrambi — tolto il gradimento per il Ponte sullo Stretto — piace tantissimo quello che all’altro non piace affatto. 

La storia dei provvedimenti più rumorosi dell’esecutivo in cui convivono da quasi due anni, compresi quelli che poi sono stati accantonati o stravolti, è la cronistoria di uno scontro con un inizio ma senza una fine: il leader leghista andava matto per il decreto sui rave party che il segretario forzista non amava, il forzista era contrario a quella specie di condono che il leghista ha dovuto correggere in un insipido «piano casa», il leghista poi era entusiasta della norma sugli extraprofitti delle banche che il forzista ha contribuito poi a far smontare pezzo per pezzo, piccoli tasselli di un elenco che potrebbe continuare oltre, soprattutto se il discorso arriva alle alleanze fuori confine: il leghista ama andare a braccetto con Marine Le Pen al punto da invitarla al raduno di Pontida, il forzista non gradisce la compagnia degli «estremisti» e ribadisce a ogni piè sospinto che «con la retorica sui migranti non si va da nessuna parte».

Se il centrodestra fosse il loro gran premio, sarebbero in fondo come Leclerc e Sainz alla guida di due monoposto che battagliano senza esclusioni di colpi per la piazza d’onore (Fdi è ancora lontanissima), inseguendo il miraggio di una bandiera a scacchi che assomiglia tanto alla doppia cifra; doppia cifra che alle ultime Europee Forza Italia ha mancato per pochi decimali e la Lega per più di un punto. 

Al di là dell’antipatia personale, che nella realtà è forse inferiore al percepito, Tajani e Salvini sembrano macchine costruite per non andare d’accordo: europeista il ministro degli Esteri ed euroscettico quello dei Trasporti, l’uno è stato così tanto nelle istituzioni europee da essersi guadagnato l’intitolazione di una strada a Gijon per aver impedito da commissario la chiusura di una fabbrica, l’altro invece a Bruxelles si faceva notare più che altro per le robuste percentuali di assenza dalle sedute dell’Europarlamento. E poi, uno dei due (Salvini) ama i social che invece l’altro (Tajani) usa giusto per interposta persona perché in realtà li detesta; uno (Salvini) considera «populista» un complimento mentre per l’altro (Tajani) è un insulto; e, se tutto questo non fosse sufficiente, bisogna tenere a mente che neanche davanti a un televisore che trasmette una partita di calcio andrebbero d’accordo, visto che il leader leghista è milanista mentre il numero uno forzista è un tifoso della Juventus non meno accanito.

Se il presente è questo, il passato prossimo non è meno ruvido. «Io parlo solo con Silvio o con chi per lui», diceva Salvini all’epoca in cui, con Berlusconi ancora vivo, i contatti forzisti li teneva con Licia Ronzulli, bypassando sistematicamente l’ex presidente del Parlamento europeo. Il quale a sua volta, dovendo nel 2019 prendere di mira l’altro all’epoca della strategia dei «porti chiusi» del governo gialloverde, disse che sui migranti «Matteo non solo non ha una strategia ma non ha nemmeno pietà». 

Quattro anni dopo sono ancora allo stesso punto, con la differenza che a Palazzo Chigi hanno uffici confinanti che frequentano entrambi molto poco. L’idiosincrasia dell’uno verso l’altro, in fondo, fu la molla definitiva che spinse Meloni a farli entrambi suoi vice. Un giorno che era perplessa, uno dei suoi scommise una pizza con lei che «litigheranno tutto il tempo» e le suggerì di non prendere mai le parti dell’uno o dell’altro o di dare ragione a entrambi a periodi alternati. Finora è stato quasi sempre così. Domani chissà.

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29 giugno 2024

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