Amedeo Carboni: «Lasciai la Samp a causa di Mancini e dissi no a Maradona»
Il terzino aretino, le due finali Champions perse con il suo super Valencia e gli scherzi a Hector Cuper
Ha giocato due finali di Champions League, perse entrambe, con la fascia di capitano del miglior Valencia della storia, ha vinto campionati (mai in Italia, solo in Spagna), Coppa delle Coppe, Coppa Uefa, Coppa Italia e Coppa del Re iberica, è stato compagno di alcuni dei migliori calciatori della sua generazione, da Vialli e Mancini a Giannini e Totti.
Amedeo Carboni, classe 1965, aretino purosangue, terzino (oggi si direbbe esterno per la propensione ad attaccare sulla fascia) è indubbiamente un giocatore fra i più importanti che la Toscana abbia prodotto e anche il campione di maggior rilievo mai uscito dal calcio aretino, fatta eccezione ovviamente per il Mundial di Spagna Ciccio Graziani, che però pur essendo trapiantato ad Arezzo è originario di Subiaco: 18 presenze in azzurro, un campionato europeo giocato nel 1996 in Inghilterra, il mondiale americano del 1994 saltato per un infortunio al ginocchio.
Oggi Amedeo, per gli amici Deo, si divide fra Spagna e Italia, in particolare la sua città dove ha creato in periferia un centro sportivo di prim’ordine. È lì che si fa intercettare, con tanta voglia di raccontare. Il calcio spagnolo, quello italiano, allenatori rimasti nel mito come Boskov, Cuper, Vicini e Sacchi.
Come nasce la sua vocazione per il pallone?
«In casa mia, a Quarata, periferia di Arezzo, eravamo quattro fratelli, tutti con la passione del calcio, fatta eccezione per la femmina. Abbiamo seguito le orme del più grande, Sergio, sedici anni più di me, che ha giocato nelle categorie minori ma è arrivato comunque in Nazionale dilettanti. Di lui dice chi se ne intende che fosse il più bravo di tutti noi, un attaccante come Guido, di due anni maggiore di me, che ha fatto una buona carriera da allenatore. Io sono l’eccezione, l’unico difensore».
Più calcio che scuola fin da ragazzo?
«Mi sono diplomato segretario d’azienda, unico maschio di una classe tutta di ragazze. A dire il vero avevo cominciato Ragioneria, ma poi il calcio mi impegnava troppo, meglio ripiegare su una scuola più abbordabile».
E poi la solita trafila nelle giovanili dell’Arezzo, la squadra della sua città.
«Sì, per gli amaranto erano anni d’oro, con il ritorno in serie B del 1982, io giocavo le partitelle d’allenamento dei ragazzi contro la prima squadra di Angelillo. Poi, a Firenze, mi notò Arrigo Sacchi che allora allenava il Rimini e mi segnalò alla Fiorentina. Ho fatto la primavera lì, sono tornato all’Arezzo dove ho fatto un campionato in B da titolare e mi hanno venduto al Bari, in serie A. Poi ancora il Parma, dove mi sono ritrovato svincolato in tempi in cui i calciatori erano pedine nelle mani delle società. Padrone del mio destino a poco più di vent’anni».
E lì arriva la Sampdoria, nel 1988.
«A dire il vero, mi voleva anche l’Inter del presidente Pellegrini. E mi aveva chiamato al Napoli Luciano Moggi, allora direttore sportivo. Mi fece aspettare in sede per una mattina intera. Alla fine me ne andai. Mi inseguì: “Ma dove vai? Qui giochi con Maradona”. Ma io non gli diedi retta e alla fine il contatto giusto fu quello con Mantovani, presidente della Sampdoria, la squadra più fascinosa dell’epoca: Vierchowood, Dossena e soprattutto Mancini e Vialli, le due stelle. Io e il portiere Pagliuca eravamo i più giovani. In panchina Vujaidin Boskov. Lo scudetto lo vinse l’Inter ma i più forti eravamo noi».
Poi arrivarono le vittorie, ma lei non c’era già più l’anno del titolo, nel 1990-91
«Bè sì, qualche soddisfazione ce la siamo tolta, come la Coppa delle Coppe e la Supercoppa Europea nel 1990. Uno squadrone con una grande presidente, Mantovani, e un grande allenatore, Boskov. Peccato non esserci stato nell’anno dello scudetto, ma ero già andato alla Roma».
Che ricordo ha di Mantovani?
«Un padre per tutti noi, uno che faceva il presidente ma non solo: in società era il punto di riferimento per tutto».
E Boskov, quello famoso per la frase proverbiale «rigore è quando arbitro fischia»?
«Preparatissimo, carismatico e anche furbo. Sapeva che non poteva mettersi contro i leader Mancini e Vialli. Infatti non provava neppure a toccarli».
Già, Vialli e Mancini, due mostri sacri.
«Gianluca era uno già avanti, un personaggio televisivo, direi, capace di bucare lo schermo. Peccato se ne sia andato così presto. Con Mancini invece non avevo un buon rapporto. Fu a causa sua che decisi di cambiare aria».
A Roma trova altri due fuoriclasse, uno sulla via del tramonto, Giannini, il «principe», e uno in prepotenze ascesa, il «Pupone» Totti…
«Dal primo ereditai la fascia di capitano. Ancora anni importanti in cui mi tolsi la soddisfazione di un’altra Coppa Italia. Poi la lite con il presidente Sensi che mi convinse ad andare all’estero. Avevo un’offerta dal Blackpool di Roy Hodgson, ma l’ha mai vista Blackpool, una città con al centro una fabbrica alimentata a carbone? No, meglio il sole della Spagna e di Valencia».
In una squadra però che non vinceva niente da trent’anni.
«Vero, fu nel mio periodo, forse il migliore della mia carriera, anche se mi sono rimasti nel cuore Samp e Napoli, che vincemmo tutto o quasi. Mi resta il rammarico delle due finali di Champions perse. Quando arrivai io l’allenatore era Jorge Valdano, la prima parte della stagione andò male, al suo posto presero Ranieri e lì cominciò la scalata. Poi la consacrazione definitiva con l’argentino Hector Cuper, l’hombre vertical, al quale feci uno scherzo clamoroso».
Quale?
«Gli presentai Mariolino Corso, ma senza dirgli chi era, introducendolo solo per nome, “ecco Mario”. Solo in un secondo momento si accorse di chi aveva davanti. Però fu lui a spingerci verso le due finali».
Mica facile arrivare in fondo alla Champions partendo da una piazza che non è né Madrid né Barcellona.
«Il primo anno, 1999-2000, ci presero sottogamba, non ci conosceva nessuno. Eppure vincemmo il girone con il Bayern ed eliminammo il Barcellona in seminale. Poi, a Parigi, non ci fu storia col Real. La stagione dopo ci aspettavano al varco, ma riuscimmo lo stesso ad arrivare in finale a Milano contro il Bayern, senza fortuna, sconfitta ai rigori, 5-4 dopo l’1-1 del campo».
E lei capitano di una grande squadra, magari non favoritissima ma con tanta «garra».
«In porta Canizares che era anche il titolare in nazionale, sulle fasce io e Angloma, a centrocampo Mendieta, davanti Aimar e il centravanti John Carew, norvegese di colore. Una soddisfazione vederci giocare. Un bel ciclo davvero».
Che non finisce lì...
«No, perché al posto di Hector Cuper arrivò Rafa Benitez e con lui vincemmo due titoli di Spagna, che al Mestalla non si vedevano da decenni. Mica facile farsi largo fra il Real di Zidane e il Barcellona di Ronaldinho».
In Spagna, poi, lei ha chiuso la carriera.
«A dire il vero, volevo andare a giocarmi gli ultimi spiccioli in America. Dagli Usa avevo avuto una proposta del Dallas ed ero tentato di accettare. Ma il Valencia mi offrì un posto da direttore sportivo, non potevo dire di no. E così sono rimasto in Spagna».
Differenze fra calcio italiano e spagnolo?
«Il nostro è un calcio più tattico, più attento alla difesa, loro puntano più sulla tecnica, si fanno meno problemi a spingersi in avanti, non sono ossessionati dal bisogno di proteggersi».
E la serie A di quest’anno come la vede?
«L’Inter è troppo forte, ha un centrocampo come pochi in Europa. La Juve deve ancora crescere e poi c’è il Milan che tifavo da ragazzo. Ero innamorato del portiere Cudicini, il “Ragno nero”».
Continua a vivere fra Arezzo e Valencia?
«Sì, anche se ormai sto prevalentemente qui, specie da quando con Guido e Luca Ghinassi abbiamo avviato questo impianto che è destinato ai giovani, con la scuola calcio, il padel, gli altri sport, i campi coperti anche d’inverno. Un punto di aggregazione per i ragazzi (in effetti, mentre Carboni parla al bar dello Sporting, nel tardo pomeriggio, sul piazzale c’è un traffico incessante di genitori che vengono a prendere i figli, ndr). Ma in Spagna ci torno almeno una volta al mese. Ora sono socio di una società che si occupa della costruzione degli stadi, molti stadi spagnoli sono opera nostra, anche quello in cui gioca Ronaldo in Arabia Saudita lo abbiamo costruito noi».
Come vede la Spagna rispetto all’Italia?
«Loro hanno fatto dei passi da gigante, sono più dinamici di noi italiani, hanno meno burocrazia. Se chiedo un permesso a costruire, mi dicono intanto comincia che poi l’autorizzazione arriva. Però gli spagnoli non hanno la nostra fantasia, quell’ingegnosità che fa il made in Italy».
E quindi Italia o Spagna, dove vive meglio?
«In Spagna sto benissimo, ma casa è sempre casa».
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