Russia, Cina, Corea del Nord e gli altri: l'asse unito che minaccia Europa e Stati Uniti

diFederico Rampini

Si allarga il fronte tra Paesi anti occidentali e dittatori. L'obiettivo della Cina: rendere sempre meno decisivo il «nostro» G7 con vari summit e alleanze

Da Budapest a Pechino, l'asse che minaccia Europa e Stati Uniti

Il presidente russo Vladimir Putin e il suo omologo cinese Xi Jinping

«Sono a sua disposizione», dice Vladimir Putin a Viktor Orbán mentre lo accoglie al Cremlino. La gentilezza del padrone di casa è così squisita da far sospettare una sottile ironia: chi dei due è davvero a disposizione dell’altro? Il premier ungherese ringrazia il presidente russo per averlo accolto a braccia aperte «in queste difficili circostanze». Difficili per chi? Per Putin, o per il popolo ucraino (e incidentalmente, anche per il popolo russo)?

Sono passati pochi giorni da quando l’Ungheria ha la presidenza di turno dell’Unione europea. Il suo controverso premier ne fa subito un uso destabilizzante, dirompente. Questa visita, mai concordata con gli altri Stati membri dell’Unione, viene sconfessata dalla stragrande maggioranza di loro. «Non ci rappresenta», è il coro pressoché unanime dalle altre capitali dell’Unione, oltre che da Bruxelles dove esiste un responsabile della politica estera.

La fuga in avanti di Orbán fa gioire invece, oltre a Putin, l’intero Asse della Resistenza, per usare un’espressione cara al regime iraniano degli ayatollah. L’Asse della Resistenza nella sua accezione originaria unisce le varie milizie jihadiste (Hamas, Hezbollah, Houthi) sotto la regia della teocrazia islamica di Teheran. Ma c’è un Asse ancora più importante, allargato a Russia e Cina, Corea del Nord e Venezuela: tutti i regimi autoritari impegnati a vario titolo a indebolire l’Occidente. A cerchi concentrici, quel raggruppamento si può ridefinire Asse dell’Evasione, includendovi pure molti altri Paesi del Grande Sud globale che hanno deciso di non aderire alle nostre sanzioni contro la Russia. Non tutti sono anti-occidentali, né tutti sono dittature. Però hanno in comune l’avversione all’ordine internazionale antico, che identificano con un’egemonia americana.

La visita di Orbán a Mosca segue di poche ore il ritorno di Putin da Astana. Nella capitale del Kazakistan — una ex Repubblica sovietica — lo Zar ha partecipato a un summit dell’Organizzazione della Cooperazione di Shanghai: una delle tante sigle partorite dalla diplomazia cinese, per organizzare attorno a Pechino delle geometrie variabili di alleanze tra Paesi emergenti. Un altro di questi club sono i Brics. L’idea è di rendere sempre meno decisivo il «nostro» G7.

«Orbán non parla per noi»: il coro quasi unanime degli europei segnala una prima conseguenza della presidenza Orbán . È un indebolimento dell’Unione stessa. Forse temporaneo. Si spera rimediabile. Intanto questa fuga in avanti del presidente di turno sconfessato dagli altri, avviene sullo sfondo di grandi incertezze. La Francia può essere alla vigilia di una ingovernabilità. Il motore franco-tedesco dell’integrazione europea è inceppato. È il momento ideale per Orbán: rompere i ranghi, provocare l’ira degli altri, pagando un prezzo minore perché quelli sono deboli.
Se il premier ungherese non rappresenta l’Unione, chi e cosa lo ha spinto al Cremlino? Varie spiegazioni si integrano senza escludersi. Mania di protagonismo, vanità personale del leader di un piccolo Stato che conquista il centro dell’attenzione. Ci sono destre putiniane in diversi Paesi europei, alcune delle quali hanno registrato successi alle ultime elezioni: dal febbraio 2022 sbuffano e scalpitano contro le sanzioni. C’è qualche lobby economica filorussa e filocinese, benché i danni delle sanzioni si siano rivelati minuscoli per l’Europa.

Dietro Orbán si profila l’ombra lunga del suo amico americano: Donald Trump. A marzo il premier ungherese si era distinto per una missione oltreoceano molto speciale. Con uno strappo alle tradizioni diplomatiche, Orbán aveva visitato Washington senza incontrare esponenti dell’amministrazione Biden. Invece aveva tenuto un discorso alla Heritage Foundation, think tank di destra che elabora piani di governo di un Trump II. Poi Orbán era volato a Mar-a-Lago, in Florida, per intrattenersi con il candidato repubblicano nel suo resort.

Al Cremlino è possibile che Orbán sia stato il latore di un «messaggio americano», o quantomeno di confidenze sulle intenzioni di Trump? Il premier ungherese ha definito questa visita a Mosca «una missione di pace». Il segretario uscente della Nato, Jens Stoltenberg, ha replicato: «Non c’è nessun segno che Putin voglia la pace». Di sicuro, non ora. Gli conviene aspettare le elezioni americane del 5 novembre.

Trump ha promesso, se vince, «la pace in 24 ore». Le condizioni si possono immaginare: cessate-il-fuoco immediato, ciascuno resta sulle sue posizioni territoriali, quindi Putin si tiene aree conquistate con un’aggressione criminale. Poi la cessazione degli aiuti americani a Kiev. Una pace così sarebbe crudele per il popolo ucraino e pericolosa per la futura sicurezza dell’Europa intera. Senza garanzie di difesa — come un «ponte» verso l’ingresso nella Nato, più patti militari bilaterali — l’Ucraina sarebbe alla mercé della prossima aggressione russa.

Questo scenario può ancora cambiare. L’Unione europea avrà un ruolo per impedire che si realizzi. Orbán gioca la sua partita, puntando le sue carte su altri vincitori.

6 luglio 2024

- Leggi e commenta