La storia di Piera Carle, la ragazza cuneese uccisa dalla madre perché incinta prima delle nozze
Il 31 luglio 1975, a Cuneo, la ragazza viene trovata morta dal padre. La mamma, poi condannata, le ha sfondato il cranio con un martello. Al processo si tentò di attenuare la colpa connotando il delitto di «valori morali»
Nel 1975 la modernità, a cercarla tra le pieghe del perbenismo, c’era. Da cinque anni il Parlamento aveva ceduto alle istanze della società, concedendo agli sposi di divorziare.
L’anno precedente infatti, un referendum abrogativo della legge era stato respinto dall’elettorato. Nella cronaca della provincia comparve una notizia terribile: «Misteriosa tragedia a Cuneo, forse il delitto di un sadico: uccisa nel bagno in prefettura una ragazza di venticinque anni».
Il mattino del 31 luglio Piera Carle, figlia del custode della prefettura del capoluogo, era stata trovata morta dal padre. La ragazza giaceva in una pozza di sangue proprio davanti alla porta. Il corpo recava ferite da punta, altre da sfondamento al cranio; l’aggressore aveva tentato pure di strangolarla. Entro la giornata, la polizia aveva già sentito il padre, la madre della vittima, il fidanzato Armando con cui Piera aveva trascorso la sera precedente e che l’aveva riaccompagnata. «Non è escluso che si tratti del delitto di un maniaco: le circostanze in cui è avvenuto l’omicidio sembrerebbero avvalorare questa ipotesi». Il cadavere era seminudo.
La signorina Carle aveva una sorella, impiegata pure lei, e lavorava in via Roma, commessa in un calzaturificio. Il titolare dell’esercizio era stato tra i primi a portare la sua solidarietà ai genitori, il padre Luigi e la signora Francesca. Sarebbe stato tra i primi anche a nutrire sospetti atroci. «Ha visto che disgrazia è capitata a Piera?», gli aveva detto la madre della vittima. «Ma ne parlava — aveva confidato a un cronista — come se la figlia si fosse fatta male cadendo dalle scale, oppure che le fosse finito il cagnolino sotto un’auto».
Altri interrogativi li avrebbe sollevati il prefetto stesso: raccontò che la mattina del 31 il signor Luigi, come tutti i giorni feriali, alle sette e un quarto gli aveva portato i giornali e il caffè. In silenzio. Vedendolo pallido e malcerto nel camminare, gli aveva chiesto se stesse bene e l’uomo aveva replicato, con tono dimesso: «Ho appena trovato mia figlia morta nel bagno. C’era sangue dappertutto». Come fosse stata una notizia tra le altre. La teoria dell’estraneo colto da raptus omicida venne presto accantonata: per raggiungere l’appartamento di servizio dei Carle era necessario superare una serie di ostacoli che avrebbero scoraggiato pressoché chiunque. Tra i reperti, venne raccolta e fotografata una catenina con una medaglietta. La polizia chiese alla madre notizie sull’oggetto: dapprima, la signora sostenne si trattasse di un regalo da parte della madre del fidanzato; poi cambiò versione e disse che era stata sua figlia a regalarla proprio a lei. Bastò chiederle conto, dopo quella confusa ritrattazione, dei graffi sulle braccia e dei lividi per aprire il rubinetto della confessione. A uccidere Piera, quella notte, era stata proprio lei. Una mamma ammazza la figlia, fidanzata da dieci anni e prossima alle nozze. Una ragazza che non aveva mai dato problemi in casa, né mai aveva fatto parlare di sé l’assassina. Non aveva senso.
Per trovarne uno, si ipotizzò che il movente potesse ricercarsi in una attrazione illecita della madre nei confronti del ragazzo. Non era così. All’apertura del processo, gli avvocati dell’imputata avevano preparato una strategia difensiva costruita sul ben pensare. Piera era una ragazza non perbene, perché forse si era fatta mettere incinta prima delle nozze e rischiava di rovinare il buon nome della famiglia. La madre, quella sera, l’aveva affrontata e lei le aveva risposto di farsi gli affari suoi.
La signora aveva inteso «darle una lezione, solo che ho ecceduto e lei è morta. Si volevano bene, dovevano sposarsi a settembre. Da due o tre settimane avevo però il sospetto che mia figlia fosse incinta. Lei ha sempre negato. Quella sera, appena rientrata, si è recata in bagno e io l’ho seguita. Avevo in mano un martello perché stavo per mettere un quadro alla parete. Abbiamo avuto una discussione, Piera ha continuato a negare di avere avuto rapporti col fidanzato ma io ero convinta che dicesse una bugia. A un tratto, senza rendermi conto, ho alzato il martello e ho cominciato a colpire. Non so quanti colpi le ho inferto, probabilmente l’ho anche afferrata per la gola. Non ricordo più niente. So solo che dopo un po’ mi sono accorta che Piera era morta».
L’avvocato difensore dell’imputata, fallita la strada della incapacità per vizio di mente, durante l’arringa ricordò che la signora Francesca era nata nei primi anni Trenta, in una frazioncina della Valle Pesio, distante anche culturalmente dalla città e legata ad antichi valori. Come quello della indissolubilità del matrimonio: nella zona, otto aventi diritto su dieci avevano votato per l’abolizione del divorzio ed erano fermamente antiabortisti, in ossequio alla morale cattolica. Chiese di condannarla per omicidio preterintenzionale. Il coup de théâtre lo regalò la pubblica accusa: il procuratore Sebastiano Campisi invitò i giudici a condannarla sì per omicidio volontario, ma a sei anni di reclusione grazie a una sfilza di attenuanti.
Il risarcimento del danno, consistito in una vendita di terreni, la provocazione da parte della figlia e il particolare valore morale dell’omicidio. «Sono di Siracusa dove la tragedia greca è di casa, e questa è un tragedia — disse —. Tuttavia, non mi sento di infierire su questa donna, che ha ucciso per un senso dell’onore così radicato fra la gente di montagna. La Daziano voleva che sua figlia giungesse illibata al matrimonio e con tanti fiori e un velo bianco». La corte seppe resistere a quel rigurgito di dottrina dell’onore e, nel giugno del 1977, condannò Francesca Daziano, escludendo ogni attenuante salvo quella della riparazione economica. Il rapporto di parentela che non venne considerato come aggravante, né si configurò una premeditazione o una particolare crudeltà che, nei fatti, furono probabili.
Il ministro Giovanni Conso fece sottilmente notare che quella sentenza non solo aveva seppellito il tentativo di alcune zone rurali di resistere al progresso civile, chiamando con nomi meno carichi di fardelli la meschinità, l’ignoranza, l’essere rozzi e retrivi, talora disumani. Ma anche indicato l’ipocrisia di una paladina della tradizione che, agendo per difendere i suoi valori, da pro-vita aveva eliminato non una ma due esistenze. Persino la stampa cattolica trovò anacronistica la presa di posizione dell’accusa. Condannata a tredici anni e mezzo, la signora Daziano resistette alla sentenza; dopodiché, la corte venne subissata dalle udienze del caso Ballerini-Pan, l’omicidio di Fulvio Magliacani, e iniziarono i rinvii. Un giorno, arrivò un atto da parte della difesa: rinuncia al processo. La mamma di Piera non voleva rievocare un’altra volta l’aggressione. Neanche l’accusa fece appello ma, di quel bel tacer, nessuno più ne scrisse.
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