Come e perché J.D. Vance cambierà gli Stati Uniti (e anche le nostre vite)

diGianluca Mercuri

Il vice di Trump è già una superstar: ecco perché possiamo dire che sta arrivando uno di quegli uomini in grado di cambiare la storia

«È un’occasione per riunire l’intero Paese, persino il mondo intero». Parlando ieri con la giornalista del Washington Examiner che avrebbe dovuto intervistarlo sabato (poi l’appuntamento mediatico ha ceduto il passo all’appuntamento con la Storia), Donald Trump ha sintetizzato così la strategia che lui e il suo staff hanno delineato per l’atteso discorso di giovedì alla Convention repubblicana di Milwaukee.

Dai toni incendiari — di cui Trump è indiscutibilmente il massimo responsabile in questi anni di polarizzazione e di violenza — si passerebbe dunque a un approccio ecumenico, da unificatore dell’America, presidente di tutti.

Sarebbe una virata totale. Lo sarà? I dubbi di Aldo Cazzullo nell’editoriale di ieri hanno radici profonde: l’intermezzo ecumenico di Trump sarà prevedibilmente breve, spiega, perché «sappiamo che questa non è la sua vera natura. E che nei prossimi mesi il suo discorso sarà: volevano eliminarmi per via giudiziaria, volevano eliminarmi fisicamente; chi non si mobilita per me, chi non combatte — il fatidico “fight” —, farà il loro gioco».

D’altronde, che l’ammorbidimento sia estemporaneo e del tutto provvisorio Trump l’ha confermato nelle stesse ore, con una scelta che può cambiare davvero il corso della storia. La storia dell’America e del mondo, la storia di tutti noi. Perché Trump, tempra o non tempra, fight o non fight, ha 78 anni. 

Il vicepresidente che ha indicato è invece nel pieno delle forze, una stella potentissima e abbagliante, un uomo in cui intelligenza, cultura, carisma, fascino personale, energia, giovinezza, determinazione, spregiudicatezza e una evidente inclinazione alla spietatezza ideologica strabordano da ogni atto e parola. Un uomo che ha solo 39 anni, e che dopo i prossimi quattro in cui Trump pare avviato a rioccupare la Casa Bianca e la scena mondiale, ha già — dopo pochissime ore — ottime probabilità di succedergli nei successivi otto.

 Significherebbe che la destra più drastica e potente della storia americana dominerebbe per 12 anni, 12 anni in cui condurrebbe un micidiale scontro di civiltà contro ogni espressione della sinistra culturale, quelle radicali come quelle moderate. La guerra non farebbe prigionieri, armate politico-ideologiche si accoderebbero ovunque a quella americana. Il mondo cambierebbe. Non c’è bisogno di essere Goethe e di farsi ricevere a Erfurt un paio d’ore per avere l’impressione che il genio tedesco ebbe di Napoleone: qui basta poco per pensare (temere, sperare?) che sta arrivando uno di quegli uomini che cambiano la storia.

J.D. Vance è già una superstar, in ogni senso. Il suo libro Hillbilly Elegy, del 2016, è un bestseller diventato il manifesto della destra americana e di tutte le destre mondiali che i libri se li leggono. 

Racconta il declino della Rust Belt, la «cintura della ruggine» un tempo cuore dell’industria pesante e della classe operaia bianca, e poi cuore del declino di entrambe. Mito e realtà di un’America profonda e depressa, che fa da base al revanscismo anti élite, sono magnificamente descritti da Vance. Un libro che nessun critico progressista ha osato stroncare per il semplice motivo che è davvero un libro meraviglioso. Per come racconta un passaggio storico, per come spiega cosa ci sia — anche di profondo, di legittimo, di condivisibile — dietro la reazione di una specie umana, il maschio bianco americano di basso reddito, che la sinistra ha tendenzialmente schifato e dimenticato (non sempre, e non ovunque) e la destra ha strumentlmente accolto e usato (sempre e ovunque, facendo bene il suo mestiere ma spesso seminando odio). Se il libro è bello e credibile, però, è anzitutto per il modo in cui Vance racconta la sua storia e quella della sua famiglia. Basta questo passaggio rievocato da Viviana Mazza per mostrarne la forza:

«È cresciuto a Middletown, in Ohio, senza una figura paterna stabile e con la mamma alcolizzata, educato all’importanza di andare bene a scuola da una fiera nonna del Kentucky, “Mamaw”, che rimase incinta a 13 anni, possedeva 19 pistole e una volta diede fuoco al nonno (che sopravvisse) quando non ne potè più della sua violenza e dell’alcolismo».

Ma perché questo ex marine povero, che poi è finito nelle università di élite e nell’alta finanza, può avere un ruolo decisivo nel nostro futuro? Per capirlo conviene leggere quello che scrive di lui Zack Beauchamp, tra i massimi studiosi americani della destra radicale (è appena uscito il suo The Reactionary Spirit: How America’s Most Insidious Political Tradition Swept the World). Oggi Beauchamp attacca il pezzo su Vox raccontando il suo incontro con Vance e l’impressione che ne ebbe, quella di un uomo «amichevole, riflessivo e intelligente, molto più intelligente della media dei politici che ho intervistato». Poi cambia improvvisamente tono:


«Ma la sua visione del mondo è essenzialmente incompatibile con i principi fondamentali della democrazia americana».

Il perché lo argomenta riccamente. Elenca tutte le sortite di Vance che stanno riemergendo in queste ore. Per esempio, quando ha detto che, se nel 2020 fosse già stato il suo numero 2, «avrebbe portato a termine il piano di Trump che prevedeva che il vicepresidente annullasse i risultati delle elezioni», e dunque ha dato ragione ai golpisti del 6 gennaio che, istigati da Trump, avevano assaltato il Congresso esattamente per fare a pezzi Mike Pence, il vicepresidente che si era rifiutato di assecondare il golpe. Infatti, «ha raccolto fondi per i rivoltosi». 

Ha invitato il Dipartimento di Giustizia «ad aprire un’indagine penale su un editorialista del Washington Post che aveva scritto un articolo critico su Trump», lasciando intravedere che intenzioni ha con la libera stampa. Dopo l’attentato all’ex presidente, sabato, «ha cercato di sbianchettare il radicalismo di Trump attribuendo la colpa della sparatoria alla retorica dei democratici sulla democrazia, senza un briciolo di prova». Ha detto infatti: «Non è un incidente isolato. La premessa centrale della campagna di Biden è che il presidente Trump è un fascista autoritario che deve essere fermato ad ogni costo. Questa retorica ha portato direttamente al tentativo di assassinarlo». Biden mandante morale, insomma, e tanti saluti al 6 gennaio, definitivamente archiviato dal proiettile di Butler e dall’orecchio insanguinato del leader che voleva sovvertire con ogni strumento l’esito elettorale, ma ora è un mezzo martire mondato da ogni atto ignobile.

Da queste parole si capisce già bene «l’agenda aggressiva» che Vance intende mettere in campo nei prossimi 12 anni. Per esempio, uno spoils system fatto col napalm, una purga totale: Trump, ha detto Vance in un’intervista di febbraio alla Abc rimasta famosa perché il conduttore George Stephanopoulos si è indignato al punto di interromperla, dovrebbe «licenziare ogni singolo burocrate statale di medio livello» e «sostituirlo con la nostra gente». Se i tribunali tentassero di impedirlo, Trump dovrebbe semplicemente ignorare la legge. «Si presenti davanti al Paese come fece Andrew Jackson, e dica che ora che la Corte Suprema ha emesso la sua sentenza, la applichi se ci riesce».

Ecco, il paragone con Andrew Jackson — il primo presidente populista (dal 1829 al 1837), di tendenze autoritarie e responsabile di varie atrocità — è di per sé indicativo. Jackson — il cui ritratto campeggiava nello Studio Ovale di Trump — ignorò nel 1832 la sentenza della Corte Suprema che aveva deciso uno stop all’espropriazione di terre indiane da parte dei bianchi. «Il risultato fu la pulizia etnica di circa 60.000 nativi, un evento che oggi chiamiamo “Sentiero delle lacrime”», ricorda Beauchamp. Vance, insomma, nella furia di porre il presidente al di sopra di qualsiasi organo di garanzia, evoca indirettamente una carneficina come precedente da seguire.

Il succo che ne trae l’esperto è questo:

«J.D. Vance è un uomo che crede che l’attuale governo sia così corrotto da giustificare misure radicali, persino autoritarie, in risposta. Si vede come l’avatar del popolo virtuoso d’America, i cui nemici politici sono intrusi che non meritano rispetto. È un uomo di legge che crede che il presidente sia al di sopra della legge».

Importante è anche il trasformismo con cui Vance è passato dal «never Trump» al diventare il suo delfino, subito paragonato dai predicatori di destra al riallineamento tra Kamala Harris e Joe Biden nel 2020. Ma davvero non c’è paragone: quello era un ordinario scontro alle primarie, mentre l’avversione di Vance per Trump è durata anni ed è stata espressa in modo durissimo. Politico ha ricordato tutti i dettagli. I più noti sono questi: nel febbraio 2016 scrisse a un ex un compagno di studi di essere incerto «tra il pensare che Trump sia uno stronzo cinico come Nixon, che non sarebbe poi così male (e potrebbe persino rivelarsi utile) o che sia l’Hitler d’America». Su Facebook attaccò il Partito repubblicano perché si era messo nelle mani di un «demagogo». Cambiò idea nel 2022, quando si candidò al Senato. Fu allora che l’ex compagno diffuse lo screenshot del vecchio messaggio.

Una volta, a proposito del suo attuale capo, twittò «mio Dio che idiota».

Celebre è poi il commento che gli pubblicò il New York Times nel 2016: «Trump è inadatto alla più alta carica della nazione». Come pure un’intervista alla Npr: «Non riesco a digerire Trump. Penso che sia nocivo e che stia portando la classe operaia bianca in un luogo molto buio». Pensò perfino di votare per Hillary Clinton contro di lui: «Credo che ci sia una possibilità, se ritengo che Trump abbia davvero una buona possibilità di vincere, di dovermi tappare il naso e votare per lei». Come si vede, basta un po’ di pazienza e di lavoro di ricostruzione per mostrare come la sua conversione al trumpismo non sia onestamente paragonabile allo scontro contingente tra Harris e Biden. C’è qualcosa di più, e un commentatore serio come Beauchamp lo spiega bene:

«Quando ho parlato con il senatore della Georgia Josh McLaurin — l’ex compagno di stanza alla facoltà di legge che aveva ricevuto il testo di Vance “America’s Hitler” — gli ho chiesto come il Vance che conosceva si sia evoluto nel Vance che vediamo oggi. “La linea di demarcazione tra l’ex JD e l’attuale JD è la rabbia”, mi ha detto McLaurin. “La svolta pro Trump può essere intesa come disprezzo in risposta alla rabbia”, in particolare il disprezzo diretto ai nemici politici di Vance. I commenti di McLaurin suggeriscono che la conversione di Vance al trumpismo sia autentica. Sono propenso a concordare, anche se la tempistica della sua conversione è sicuramente conveniente: si è convertito al populismo di destra giusto in tempo per candidarsi a un seggio vacante nell’Ohio trumpiano».

D’altronde, ricorda giustamente, sapere cosa pensino davvero i politici è importante ma fino a un certo punto: conta di più cosa fanno. E comunque gli indizi di una adesione sincera di Vance alle pieghe più reazionarie del moderno pensiero conservatore sono sparsi ovunque. I suoi riferimenti sono l’accademico Patrick Deneen, che invoca un «cambio di regime» in America, e il suo ex datore di lavoro e attuale sponsor Peter Thiel, il miliardario della Silicon Valley (non sono affatto tutti di sinistra) capace di dire «non credo più che libertà e democrazia siano compatibili».

Un concetto affine a quello della «democrazia illiberale» teorizzata da Viktor Orbán

È il primo ministro ungherese il vero modello di J.D. Vance come di tutte le moderne destre mondiali. Lo ispira in molte cose — l’approccio verso la stampa e la magistratura per esempio, che a Budapest sono diventate quasi interamente organiche al governo — ma c’è soprattutto una frase da tenere d’occhio: a proposito delle università, secondo Vance, Orbán «ha preso alcune decisioni intelligenti da cui potremmo imparare negli Stati Uniti». Allude alla conquista del mondo accademico da parte della destra ungherese a suon di finanziamenti statali — qui la racconta l’Economist — e fa capire che più che mai le università sono e sempre più saranno il campo di battaglia tra destra e sinistra: se ora sono il laboratorio delle teorie progressiste più radicali e anche controverse, per l’uomo dell’Ohio devono cambiare di segno e diventare roccaforti del pensiero conservatore.

Insomma, non è certo un caso se Kevin Roberts, presidente del think tank di ultradestra Heritage Foundation, forza trainante del «Progetto 2025» che mira né più né meno a orbanizzare l’America, dica apertamente che Vance «sarà assolutamente uno dei leader — se non il leader — del nostro movimento».

Last but not least: Vance è un antiabortista feroce. Feroce perché vuole costringere a concludere la gravidanza perfino le donne vittime di stupro e incesto. Lo ha spiegato così: «Due errori non fanno un diritto. Non si tratta di stabilire se una donna debba essere costretta a partorire un figlio, ma se si debba permettere a un bambino di vivere, anche se le circostanze della sua nascita sono in qualche modo scomode o un problema per la società».

Naturalmente è pure islamofobo: un prerequisito ormai per questa «Nuova Destra» assertiva che vuole spazzare via la «dittatura» della sinistra. Solo che qui l’articolazione del pensiero si fa grezza fino al grottesco. Lo si è visto di recente, quando ha detto che la Gran Bretagna può essere «il primo paese davvero islamista dotato di armi nucleari, ora che hanno vinto i laburisti».

Ecco dunque il vero campione della destra: Trump è solo di passaggio. Il vansismo soffierà forte ovunque. In Europa e in Italia in tanti non vedono l’ora

17 luglio 2024 ( modifica il 17 luglio 2024 | 17:29)

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